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Chi pilota la mano?

In questi tempi moderni, forieri di relazioni sociali trasformate, tempistiche di vita più rapide, nuove sfide mentali e cognitive, in contemporanea dispersione di alcuni valori e tradizioni, l’approccio personale e mentale alle difficoltà del quotidiano è cambiato.

Una volta, si diceva, le avversità facevano crescere. Ogni sfida era una opportunità per “strutturarsi” nei confronti della vita, un rafforzamento preparativo verso altri ostacoli più grossi che sapevamo avremmo incontrato (o lo sapevano i nostri padri).

Oggi, al contrario, quelle stesse opportunità e sfide formative diventano ostacoli, interruzioni e rallentamenti per la natura stessa del modus operandi richiesto dal nostro attuale quotidiano.

Questo comporta che, invece di provare a risolvere le problematiche, accrescendo così anche il proprio valore, la propria cultura e le personali potenzialità, si cerca di aggirare tali ostacoli (o quelli che noi consideriamo tali) per cercare di arrivare più velocemente al risultato. Tutta colpa dei tempi veloci richiesti? Non proprio. Tutta colpa della nostra pigrizia? Non esattamente.

La prima enorme differenza rispetto al passato è il conseguimento del risultato ultimo. È ciò che conta in assoluto, in ogni settore, e non il viaggio intrapreso per conseguirlo. E questa è la prima fregatura. Se non ci danno tempo per ragionare, e per imparare, sovente il solo modo che resta per risolvere il problema è aggirarlo.

Queste non sono solo parole nostre. Sociologi ed esperti del settore (nonché i geni del marketing) impazziscono per cercare di trovare il bandolo di una matassa che in realtà non c’è, non esiste, perché il “cervello collettivo” della gente è in perenne movimento e trasformazione.

Non puoi capire e analizzare un qualcosa che ti passa fuori dal finestrino a 100 all’ora. Non è definito, non è definibile, e comunque non ne hai il tempo. Semplicemente, non è possibile.

Ciò che ieri era esercizio di meditazione e pazienza, oggi è tempo perso. Quello che in passato era prendere una boccata d’aria fresca, rigenerarsi, ritemprarsi prendendosi agio e spazio per se stessi, oggi diventa fonte di stress perché richiede troppo tempo e si va troppo piano.

L’Arte, in tutte le sue sfaccettature, non sfugge al pericolo. Per transizione, adottando questo modo di vivere in ogni aspetto della propria vita lo esercitiamo anche in ambiti che davvero non ne avrebbero bisogno. Ma tant’è. Anche fare Arte ha le sue complicazioni e corre i suoi rischi. E infatti ricasca in pieno nel concetto.

Per creare arte serve tutto un gruppo di lavoro. Questo team è composto da una vera e propria “task force” in assetto da combattimento. Comprende occhio (per misure, colori, costruzioni e analisi dei difetti), mano (intesa come tocco nel lasciare il segno ma anche come vero e proprio organo; basti pensare all’ impugnatura di una matita o di un pennello, aspetto che coinvolge tutte e due le tematiche in contemporanea), talento, creatività, fantasia, conoscenza dei medium... e tante altre cose. Questa forza d’intervento, quando serve, è pronta all’azione. Ogni tanto si addormenta, e in quei casi l’Artista va nel panico, e resta muto, fermo, inerte davanti alla tela, alla carta o al materiale da scolpire. E se il periodo si prolunga, la paura di avere perso le proprie capacità, e di ritrovarsi senza il “dono” comincia lentamente a serpeggiare nell’anima e nel cuore, freddo e viscido, sfuggente alla presa e veloce a nascondersi negli anfratti e negli angoli oscuri.

In realtà niente è perso. Semplicemente, il team creativo - presente in noi - aspetta che vi siano condizioni più favorevoli per entrare in azione. C’è chi interviene anche durante la peggiore delle tempeste, o va in barca durante uno tsunami. Emilio Salgari, lo scrittore dei pirati e di Sandokan, la Tigre della Malesia, scriveva povero in canna, con i figli che piangevano dalla fame, la moglie malata e morente a letto, e i creditori che bussavano alla porta. Forse erano proprio queste le condizioni ideali alla creazione, per lui. Era così forte e compromessa la situazione che, non potendo fuggire fisicamente, lo faceva con la mente, e scriveva i suoi capolavori, immaginando un’altra vita.

Per altri, invece, il gruppo creativo si mette al lavoro solo se è in un hotel 5 stelle Superior, alloggiato nella suite presidenziale, vista mozzafiato e servizio in camera all inclusive 24 ore su 24. Dipende da come si nasce.

Ma una cosa è certa; il team creativo non si disperde e non va in pensione. Ha solo bisogno delle condizioni ideali per esprimersi.

E qui arriviamo al punto nodale della questione: quando si concretizzano le condizioni ideali e personali perché ognuno possa esprimersi... chi comanda il team?

I comandanti, o meglio, i "piloti" preposti a dirigere le operazioni sono sempre stati solo due, da che mondo è mondo, fin dalla notte dei tempi:

  • la regola (cioè la tecnica, il metodo, la maniera, la scuola, chiamala come vuoi) o il “getto”

  • il furore artistico, la creatività, l’impulso creativo.

E non possono, ripeto NON possono coesistere nello stesso posto di comando. Nella cabina di comando sì, e guai se non fosse cosi. La tecnica da sola senza il furore creativo non accende nemmeno il camino, mentre l’estro artistico, senza l’aiuto della regola, consuma medium e supporti senza un perché. Uno non esiste senza l’altra, e viceversa. Tutte e due le soluzioni hanno assoluto bisogna che l’altro elemento intervenga e dica la sua.

Ma sulla sedia del pilota, al volante, ai comandi, uno solo può stare. Ora resta da decidere quale dei due.

La mano (intesa come team creativo e forza di lavoro), governata dal metodo e dalla tecnica, guida prudentemente, suona il clacson prima di ogni curva, tiene diligentemente la destra, rispetta la corsia, non sorpassa quasi mai, ottempera a tutti i segnali stradali che incontra e guarda bene prima di attraversare. Una guida così ti permette di vedere il panorama, assaporare la gita, viaggiare in relativa sicurezza e risparmiare benzina. Però ci metti una vita ad arrivare, non ti passa più, non riesci a stare sveglio e se piove o tira vento il viaggio è un incubo (se regge la metafora).

La mano (sempre intesa come team creativo e forza di lavoro), guidata dalla pulsione creativa viaggia a pieno regime, con il tachimetro a fondo scala, prende le curve in controsterzo, il motore romba, le gomme stridono, si viaggia con l’adrenalina a mille. Magari anche con la capote abbassata, il vento tra i capelli, con il volante grande in legno e il pilota in guanti bianchi e – se donna- con gli occhiali da sole e il foulard. Insomma: si va via in piena libertà.

C’è da chiedersi perché correre, ma spesso non serve porsi domande. Talvolta si corre solo per correre, senza un perché preciso, e va bene così. È assai più divertente, correre, ma ci si stanca di più, e basta il minimo errore per andare contro un palo.

L’aspetto più frustrante, però, è quando ci si ferma: l’adrenalina cala, il silenzio opprime e rimbomba e, subito, ci si accorge che del viaggio in sé non è rimasto niente. Ci ha nutrito solo il correre e sentire rombare il motore, per cui si ricomincia daccapo, perché andare lenti come la tecnica è peggio che morire o stare fermi.

Per cui: o vai piano e guardi fuori dal finestrino, o corri e ti godi solo l’auto. Le due cose insieme non si possono fare.

Perché accade questo? La risposta è semplice quanto complessa: dipenda dal motivo per cui si vuole fare Arte.

Se la si fa per mestiere, o perché se ne vuole fare un mestiere, e provare a vivere di Arte, allora molte delle riflessioni sui gusti e sulle motivazioni personali vengono meno. Per continuare nella metafora, si predilige il viaggio lento e panoramico, ma facendo spesso solo da autisti. Nel corso della storia tutti gli Artisti si sono dovuti adeguare ai gusti della gente, e hanno dovuto mediare tra quello che avrebbero voluto riversare sulla tela e quello che realmente potevano permettersi. Solo i grandi Maestri hanno imposto la loro volontà, non sempre riuscendoci. Tutti gli altri, bontà loro, dovevano sottostare alle richieste dei committenti.

Se si fa Arte solo per sé stessi, per urlare la propria esistenza, far sentire la propria voce, dare sfogo a fortissime pulsioni interne, allora la necessità è ritrarre fuori il vulcano che ognuno ha dentro di sé. E le motivazioni per far uscire “il mostro” sono assai personali, e quasi sempre hanno a che fare con il mondo intimo della persona. La guida non può essere prudente, perché l’impeto, la forza, il furore espressivo la fanno da padroni. Talvolta questa interpretazione e la precedente coincidono, e allora abbiamo l’Artista che vende... finché la sua strabordante visione creativa e la visione delle persone esterne coincide.

Il terzo motivo è per esprimere sé stessi, ma scegliendo il percorso di studio e formazione. Scegliendo di valorizzare la propria arte, di elevarsi culturalmente e “talentuosamente”. Di essere Arte e di vivere “per” essa, ancora prima che “con” essa. E allora la risposta qui è la guida panoramica, senza alcun dubbio.

Cercare di far convivere i due piloti sullo stesso sedile, accorpando le motivazioni, solo per questioni di comodo e di dichiarata intenzionalità di nascondere la propria pochezza, e la scarsa voglia di vivere e imparare l’arte, lamentandosi perché il popolo non capisce quanto siamo “fenomeni”, è atteggiamento, per l’appunto, da fenomeni da baraccone. Non si possono ignorare certi elementi, la storia e la presenza o meno di predisposizione e talenti. Non si può ignorare un pianeta intero se la pensa diversamente da noi. E non si dovrebbe nemmeno tentare di rivendere come frutto di una nuova linea di pensiero un naso con tre buchi, o una testa grande il quadruplo del busto.

Nelle Arti, tutte, non si può mentire. Si può parlare a sproposito, ma non si può mentire. Si può scimmiottare una rock star, o un musicista classico diplomato al conservatorio, suonando tre accordi di chitarra sulla spiaggia, ma non si diventa pratici dello strumento subito. Suonare la chitarra non si può fare in 5 minuti. Chi ha studiato, e ha visto i suoi polpastrelli sanguinare tagliati dalle corde, prima che si formassero gli agognati calletti, lo sa. E quel dolore, oltre che benefico e vivifico, è piacere, perché lo sta regalando una delle cose più importanti a cui si tiene: la passione. È tutto mestiere che entra, come diceva qualcuno.

Non si può mentire, e non si può scendere a compromessi. O guida la tecnica, da imparare ed esercitare ogni giorno, o guida l’estro creativo, botta di energia unica e temporanea perché rinnovata ogni volta. Stabilito questo, come detto, il vice comandante dà il suo apporto perché tutto vada per il meglio.

Chi scrive è anche un fautore e acceso sostenitore della teoria secondo la quale si deve vivere l’arte anche come mezzo per lasciare un segno su questa terra. Anche solo pubblicare un lavoro, farlo vedere, condividerlo con qualcuno è un momento che crea storia. Si Potrà dire “c’è stato un momento in cui gli altri mi hanno visto, un momento in cui per gli altri sono esistito per come io sono dentro e per come mi esprimo, senza sovrastrutture e convenzioni”, con tutti i significati reconditi del caso. “E mi va di vivermela secondo per secondo, assaporandola lentamente.” E per arrivare a questo, devo sposare la tecnica, perché il mio messaggio, il mio segno, espresso solo tramite impulso creativo, potrebbe essere troppo criptico per taluni e non facilmente condivisibile, proprio in quanto non comprensibile ai più. Questo non è “svendere” la propria arte, ma, al contrario, elevarla ad un piano più altro, renderle l’omaggio che merita.

Allora so, per esempio, che i colori vanno costruiti. Che se voglio fare un incarnato veritiero non devo consumare diciotto matite furiosamente, ma mi ci vuole la mano guidata dalla tecnica, che disegna bene la posizione della testa, trova le mezzerie, cura l’espressione del volto e degli occhi (sono due cose diverse, tre con la bocca), e poi faccio lo sfondo verde, e poi metto le ombre, e poi passo alle mezzetinte, e poi i chiari e poi i punti luce, e poi lo sfondo...

Oppure prendo e rovescio il colore come viene.

Alla fine... “quale dei due piloti avrà valorizzato come merita la mia mano e il mio talento? Ah, saperlo...”

 

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